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Sostenibilità e formazione: l'intervista a Silvia Pettinicchio

di Nadia Lucia Cerioli

Nei nostri precedenti articoli abbiamo più volte sottolineato l’importanza di acquisire consapevolezza sui temi della sostenibilità, perché solo attraverso l'interiorizzazione e la condivisione, si può rendere reale la transizione verso modelli di vita differenti e “green”.

La formazione diventa, quindi, cruciale, perché solo attraverso l’educazione degli adulti e delle nuove generazioni è possibile cambiare i modelli di pensiero attualmente diffusi nella nostra società.



Per parlare di questo aspetto fondamentale abbiamo intervistato Silvia Pettinicchio, professoressa di Marketing Management all’Università LUM Jean Monnet e Presidente del consiglio di Municipio 3 del Comune di Milano.

Una donna eclettica, estremamente vivace ed attiva intellettualmente e socialmente, che ha fatto suoi i temi della sostenibilità e della tutela ambientale, declinandoli con convinzione e forza in modi nuovi e concreti.


Silvia, che ringraziamo per la sua disponibilità a condividere la preziosa esperienza acquisita, ci ha fornito importanti risposte e spunti di riflessione che vi invitiamo a leggere con attenzione!


L’argomento della sostenibilità è ormai sulla bocca di tutti e, purtroppo, anche a sproposito o solo a fini pubblicitari. Quanto pensi possa contare un’adeguata formazione su tale tematica per discernere la qualità di ciò che ci si presenta davanti?


Quando si cerca di fornire una spiegazione per il ritardo con cui l’Italia (come Paese e come popolazione) sta adoperandosi per il raggiungimento degli obiettivi dell’agenda 2030, si tende a nascondersi dietro una superficiale e generica risposta: manca la cultura verde. Se però analizziamo meglio la questione, ci rendiamo conto di come la cosiddetta cultura verde, green o ecologica sia più diffusa di quanto i media vogliano farci credere. L’attenzione e la sensibilità della popolazione verso i temi del vivere sostenibile

viene guardata per filoni tematici e comportamentali (ad esempio: alimentazione a base vegetale, attivismo ambientale, riduzione degli sprechi, mobilità dolce, raccolta differenziata, ecc.) e non riconosciuta e letta invece come un nuovo substrato culturale e valoriale del Paese. I dati fanno emergere un’Italia molto più informata e sensibile di quanto si voglia credere sui temi della crisi climatica, degli stili di vita sostenibile.

Come mai quindi un imperdonabile ritardo verso la conversione ecologica e la politica verde? La riposta a mio avviso va cercata in tre ambiti:

- una narrazione pauperistica e oppositiva sia da parte dei media tradizionali sia da parte dei politici ambientalisti e non, legata ai temi ambientali che configurano la conversione ecologica come decrescita

- la mancanza di relazione tra la consapevolezza sui temi e la volontà di cambiamento dei

comportamenti a livello individuale

- la disaffezione e l’allontanamento della popolazione dalla politica in generale che tiene lontani dal voto proprio quelle fasce della popolazione che sono più sensibili ai temi della sostenibilità (giovani e donne).

È, quindi, su questi tre livelli che ritengo sia necessario fare formazione più che sulla capacità di discernere tra chi fa greenwashing e chi invece fa le cose sul serio.


Quali credi siano i messaggi più importanti da trasmettere in ambito formativo riguardo alla sostenibilità ambientale?


Il messaggio che considero prioritario senza dubbio è che il cambiamento climatico è già in corso con conseguenze che impattano su tutte le persone, nel mondo ed in Italia. Che ciò a cui assistiamo anche in Italia (siccità, innalzamento delle temperature, alluvioni, scomparsa dei ghiacciai) non sono sintomi di un meteo ballerino ma effetti di cambiamenti epocali a lungo termine. Purtroppo, questi messaggi sono tra i

più difficili da veicolare perché le persone davanti a cambiamenti così drammatici e radicali, tendono a negare, rinchiudersi, girarsi dall’altra parte. Si genera una sorta di reattanza psicologica per anestetizzare. quella sorta di eco-ansia che ci invade davanti alle narrazioni catastrofiste. È molto più efficace far passare il messaggio a piccole dosi, magari cominciando a mettere in relazione il cambiamento climatico al nostro comportamento quotidiano e riportando quindi la questione ad una sfera che si può controllare. Quanta

carne mangio? Come mi muovo? Cosa compro? Come consumo? Una volta compresa la relazione tra comportamento umano su piccola scala e effetti sull’ambiente, allora si può cominciare a riflettere su scala maggiore: pratiche aziendali, politiche locali, nazionali ed internazionali, desiderio di cambiamento da concretizzare con le proprie scelte anche politiche, responsabilità individuale e collettiva e il fatto di diventare diffusori di nuova consapevolezza.


Sei una professoressa universitaria di marketing management, materia che sembra molto distante dai temi della sostenibilità. Invece, come declini la sostenibilità nelle tue lezioni?


Me lo chiedono spesso perché c’è un’idea piuttosto diffusa che vede il marketing come pratica poco etica per convincere le persone a comprare e consumare sempre di più. Rispondo con una considerazione: i brand hanno capito che il consumatore è più attento all’ambiente e, addirittura, sceglie i prodotti dalle aziende che considera più sostenibili e si stanno adoperando per rispondere a questa richiesta globale. È necessario comprendere quanto sia cambiato il ruolo delle aziende nella società odierna. Operano in un

contesto caratterizzato da istituzioni che infondono sempre meno fiducia, con consumatori perennemente connessi e sempre più informati su ciò che accade. Gli utenti sono in grado di farsi sentire grazie a strumenti che hanno praticamente annullato qualsiasi grado di separazione con i brand. Nell'era di #metoo e #BlackLivesMatter, degli scioperi per il clima e delle azioni radicali di Ultima Generazione le aziende non possono limitarsi a vendere prodotti per avere successo: devono vendere valori. Per farlo, devono dare

spazio alle nuove istanze attraverso una comunicazione che miri anche a creare una cultura più legata alla sostenibilità.

Ai miei studenti in università porto sempre casi di aziende che operano non solo per il profitto ma soprattutto con un forte impianto etico lungo tutta la filiera. E li faccio sempre ragionare sul futuro che vorrebbero vivere: alla fine del semestre sono tutti sensibilizzati sul loro potere di consumatori ma anche di futuri imprenditori e manager.


Quando si pensa alla formazione, l’immagine che viene subito in mente è quella degli studenti delle scuole. In realtà, è fondamentale fare formazione a tutti i livelli. Quali sono le differenze più evidenti che hai riscontrato nel formare giovani universitari e persone adulte, non più in ambito scolastico?


Mai come negli ultimi due anni ho ricevuto tante richieste di formazione in azienda sui temi legati alla sostenibilità e non solo nei settori in cui questo sembrerebbe più scontato, come l’energetico o i trasporti per esempio. Ho formato su questi temi intere popolazioni aziendali in settori come la pubblicità, la finanza, la cosmesi, l’editoria ma anche la moda, l’alta meccanica di precisione e molti altri. Le aziende hanno capito che il macrotrend della decarbonizzazione è qui per restare. Ci si può adeguare o si resta indietro. E per adeguarsi sono necessarie persone sensibilizzate prima di tutto sulla necessità di cambiare e poi formate da un punto di vista tecnico. Quando sono in aula in azienda ho davanti persone che magari hanno già sentito parlare di ESG, di bilancio di sostenibilità ma a cui poi manca l’inquadramento generale del perché profondo di queste pratiche.

I miei studenti invece (insegno in una facoltà economica) hanno vissuto direttamente il fenomeno dei Fridays for Future, delle marce per il clima e dei flash mob di Extintion Rebellion e Ultima generazione. Però, hanno scelto di iscriversi ad una facoltà che sforna manager. Generalmente temono che promuovere modelli economici più sostenibili significhi dover rinunciare a qualcosa: consumi, livello di benessere,

reddito. Tutto questo perché nelle facoltà di economia tradizionali non sono maturi abbastanza programmi di economia circolare, green economy, ecc. Meglio ancora: la sostenibilità dovrebbe diventare mainstream in tutti gli insegnamenti. Dalla finanza al design, dall’organizzazione aziendale al marketing, dal diritto alla gestione delle risorse umane e non confinata in corsi dedicati. Più che sugli studenti sarebbe necessario

lavorare in fretta alla definizione di nuovi programmi di studio e alla formazione dei docenti con un importante piano di formazione nazionale che ponga la sostenibilità ambientale e sociale al centro.


Successivamente a lezioni sul tema, hai ricevuto riscontri positivi su acquisizione di una maggiore consapevolezza da parte dei partecipanti e/o su loro cambiamenti, messi in atto grazie ad una visione “nuova” e più cosciente e responsabile della realtà?


Succede sempre perché chi conosce la condizione drammatica in cui versa il nostro pianeta poi si adopera per modificare i propri comportamenti. Concludo tutte le mie lezioni con un breve quiz in cui chiedo ai discenti di elencare i cambiamenti che intendono apportare al proprio stile di vita a partire dal giorno dopo.

Moltissimi rispondono che ridurranno il consumo di carne, altri che smetteranno di comprare acqua in bottiglia e prodotti di plastica monouso, altri ancora che non taglieranno l’erba del giardino durante i mesi primaverili. Moltissimi rispondono che vogliono informarsi di più, alcuni di volersi attivare per una causa ambientale. Il cambiamento più difficile è modificare le proprie abitudini di mobilità. Difficilmente le

persone sono disposte a rinunciare all’auto.


Oltre a docente, sei presidente del terzo municipio nel tuo Comune: Milano. Come agevoli nella tua azione politica, il passaggio di informazioni adeguate, e quindi un certo tipo di formazione, al cittadino in tema di sostenibilità?


È la sfida più difficile. Un’amministrazione illuminata che opera per una transizione ecologica della città deve imporre scelte non sempre popolari che vanno ad intaccare ciò che le persone, ad una lettura superficiale, considerano diritti acquisiti, come l’auto o il parcheggio gratuito sotto casa. Per questo la formazione è fondamentale, perché queste scelte devono essere intese come parte di un piano strategico volto a migliorare il benessere delle persone: più spazi verdi, piste ciclabili più sicure, consumo responsabile delle risorse, aria più pulita, suolo rigenerato. E su questo le varie amministrazioni peccano. I soldi non sono abbastanza o forse la comunicazione e la formazione preventiva non rientrano nella strategia di comunicazione politica che è sempre più e costantemente elettorale. Da parte mia ogni anno nel mio

municipio, assieme ad associazioni del territorio, organizzo una rassegna di documentari sui grandi temi ambientali gratuiti ed aperti al pubblico, oltre ad attività formative integrative alla didattica nelle scuole. È

pochissimo rispetto a ciò di cui ci sarebbe bisogno. Ma integro con attività di volontariato all’interno di grandi associazioni ambientaliste nazionali che lavorano molto bene sulla sensibilizzazione delle persone.


In base a tutte queste esperienze, la lente attraverso cui guardi il futuro ti mostra qualcosa di bello?


Certamente altrimenti non sarei qui ad occuparmi ogni giorno di questi temi! Ho registrato negli ultimi due anni anche in Italia, tra le aziende in primis, una maggiore consapevolezza e determinazione ad impegnarsi in modelli di produzione più sostenibili ed etici. Un po’ lo richiedono i consumatori, un po' gli investitori.

Ecco: se la politica procedesse con la stessa velocità e convinzione i cambiamenti sarebbero molto più profondi e forse gli obiettivi dell'agenda 2030 non risulterebbero ancora così lontani dall’attuarsi. Ma su questo ci stiamo lavorando!

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