di Sandro Santececca
Nel mio precedente articolo ho fatto cenno al concetto di "work life balance".
Ma, esattamente, di cosa si tratta?
La traduzione letterale in italiano è "equilibrio vita-lavoro", ma, come per ogni cosa, è necessario andare a leggere fra le righe per veder emergere il suo significato intrinseco, ovvero "riuscire a dare un giusto equilibrio emotivo fra il lavoro e la vita privata".
Il concetto nasce a Londra negli anni ’70 negli ambienti interessati a comprendere quali fossero gli aspetti considerati importanti dalla working class. Ciò che emergeva era un quadro agghiacciante: un numero elevatissimo di persone accettava lavori usuranti, scomodi, in alcun modo capaci di trasmettere serenità e ottimismo verso il futuro, privi di prospettive reali e del tutto scollegati da qualsiasi tensione all’auto-realizzazione. L’unico criterio con cui la classe lavoratrice sembrava scegliere (ma sarebbe forse meglio dire: accettare) il lavoro, era lo stipendio con il quale poter mantenere la famiglia e magari sognare un futuro migliore per i figli.
Per tanti anni si è dibattuto sull’esigenza di trasformare la vita lavorativa, rendendo gli orari più flessibili, gli ambienti di lavoro più accoglienti e salubri, i salari più dignitosi, tuttavia, prima della pandemia, tutto questo è rimasto spesso sulla carta o, peggio, nella forma di semplice dichiarazione di intenti.
Ma poi ecco il covid, il lock-down, il distanziamento e, conseguentemente, con gli uffici chiusi e le presenze in ufficio da contingentare, ecco anche la “scoperta” del lavoro da remoto, il “lavoro da casa”. Un cambiamento dopo il quale, nonostante i tentativi di riportare il lavoro alla “normalità”, nulla è più stato come prima.
In un recente articolo, l’INPS sottolinea come in Italia un milione e mezzo di persone abbia deciso, nel corso del 2022, di lasciare di propria spontanea volontà il lavoro, non più in grado di consentire quell’equilibrio di cui molti hanno scoperto il bisogno, preferendo trovare soluzioni più vicine e inventandosi o reinventandosi mestieri online: dal Network Marketing al Social Media Manager, fino alle iniziative da youtuber e influencer.
Di fatto, il pensiero è stato: “Se non mi aiuta lo Stato, con il Welfare e con cambiamenti urgenti nel mondo del lavoro, ci devo pensare da me”.
Naturalmente non tutti trovano il coraggio di mettere in pratica una scelta del genere, per certi versi estrema. Tuttavia sono tante le persone che hanno approfittato dello smart working per passare più tempo con i figli e/o con sé stessi, iscrivendosi in palestra o iniziando a praticare yoga o, semplicemente, per garantire più tempo alle proprie passioni e ai propri hobby, dopo anni nei quali il tempo di non-lavoro è andato via via riducendosi, rinchiusi negli abitacoli delle nostre automobili in fila e negli uffici sovraffollati e lontani da casa, come eterni pendolari.
Forse, anche grazie alla pandemia che abbiamo subito per 2 anni, qualcosa nel nostro modo di ragionare è cambiato, forse in meglio, di certo sono emerse sensibilità nuove e nuove esigenze, sebbene siano ancora tante le persone non in grado di percepirne interamente il valore trasformativo, oppure costrette a tornare alle vecchie (cattive) abitudini a causa di scelte aziendali poco inclini all’innovazione.
Per approfondire il tema, vi invito a leggere quest’articolo molto interessante: "Il legame nascosto tra lavorare troppo e salute mentale" uscito qualche giorno fa su Internazionale.
Volete raccontarci la vostra esperienza? Finita l’emergenza pandemia vi trovate al punto di partenza o finalmente avete ottenuto il cambiamento che speravate?
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